Il Linguaggio dell’Autorevolezza

Nel mio articolo del mese scorso sull’Intelligenza Linguistica (puoi leggerlo a questo link) ti ho raccontato cos’è questa disciplina, come funziona e perché è di fondamentale importanza.

Si tratta di un argomento molto vasto, che riguarda come pensiamo, come parliamo e come scriviamo.

Ti spiegavo che le parole possono letteralmente creare la realtà e che il linguaggio è in grado di trasmetterci specifiche emozioni, a seconda delle parole che scegliamo di usare (o che riceviamo dagli altri).

Tra le tante aree di cui si occupa l’Intelligenza Linguistica, ce n’è una che mi piace particolarmente, ossia il Linguaggio dell’Autorevolezza.

Mi piace perché, oltre a riguardare specifiche formule linguistiche che usiamo molto spesso, va a scardinare convinzioni e convenzioni linguistiche desuete, inopportune e decisamente controproducenti.

Ma prima di entrare nel merito della questione, è bene specificare cosa si intende per “Autorevolezza”.

 

L’Autorevolezza nell’Intelligenza Linguistica

Cercando “Autorevolezza” sul dizionario Treccani, ci dice che è una caratteristica di una persona autorevole (grazie per questa perla, dizionario Treccani…). E quando si cerca “autorevole”, il dizionario fa, a mio avviso, un po’ di confusione, riportando che si tratta di chi ha “autorità”.

Ebbene, io credo che “autorità” e “autorevolezza” siano cose ben diverse, soprattutto perché di solito l’autorità è qualcosa che viene “calata dall’alto”, qualcosa di cui si viene investiti, a volte senza particolari meriti. L’autorevolezza, invece, è un qualcosa che ti viene attribuito da altre persone, sulla base di determinate qualità spesso riconosciute da molti.

A prescindere da questo, l’autorevolezza nel contesto dell’Intelligenza Linguistica ha un significato ben preciso: significa mantenere parità psicologica con il tuo interlocutore. In altri termini, vuol dire che, quando comunichi, devi usare un linguaggio che non ti faccia apparire né aggressivo (e quindi dominante), né remissivo (dunque passivo).

Se da un lato questa sembra essere la stessa definizione di assertività, in realtà si tratta di ben altro: mentre l’assertività pone l’attenzione su formule e toni linguistici che sono esplicitamente aggressivi o passivi, l’Intelligenza Linguistica si riferisce a qualcosa di più sottile. Si riferisce infatti a tutte quelle formule, orali e scritte, che apparentemente sembrano perfettamente equilibrate, educate e gentili e che, dunque, usiamo per abitudine senza nemmeno ragionarci. In realtà, guardandole più da vicino, ci si accorge che si tratta di formule che, una parola alla volta, tendono a farci “mettere sotto”, sbilanciando la parità psicologica a vantaggio del nostro interlocutore.

E il bello è che lo facciamo noi, da soli, e senza praticamente rendercene conto, salvo poi stupirci se l’altro ci tratta male o si prende troppe libertà.

 

Alcuni esempi

Una premessa: gli errori che riguardano il discorso dell’Autorevolezza sono solitamente piuttosto piccoli, se commessi singolarmente e una tantum.

Il punto è che di questi errori ne compiamo molti, spesso tutti insieme e ripetutamente nel corso delle interazioni con gli altri. Così facendo, a lungo andare comportano effettivamente una perdita di autorevolezza e una modifica della percezione che l’altro ha di noi.

Un primo esempio è quando parliamo con qualcuno e, per verificare se ha compreso, gli chiediamo “Hai capito?”. Si tratta di una frase che, anche ai corsi di comunicazione più scarsi, indicano come sbagliata, perché è come se mettessimo in discussione la capacità dell’altro di capire e, dunque, stessimo accusando velatamente la sua intelligenza. Il problema è che agli stessi corsi di comunicazione ti consigliano di sostituire questa frase con altre come “Mi sono spiegato?” o “Sono stato chiaro?”. Niente di più sbagliato, perché in questo modo stiamo dando la colpa a noi e stiamo mettendo in discussione la nostra abilità di spiegarci o essere chiari: qualcosa a cui magari l’altro nemmeno aveva pensato, ma, dicendolo, gli mettiamo noi in testa questa idea e perdiamo autorevolezza. Dunque, per fare questi “check di comprensione” (si chiamano proprio così), è meglio utilizzare delle formule neutre, che non risultino né aggressive (“Hai capito?!”), né passive (“Mi sono spiegato?”): vanno benissimo espressioni come “Hai qualche domanda?”, “C’è qualcosa che vuoi approfondire?”, o al limite “Fin qui tutto ok?”.

Un altro esempio riguarda invece lo scritto: uno dei tanti errori di Autorevolezza che compiamo consiste nello scrivere a fine mail “Resto in attesa di un gentile riscontro”.

Lo so: lo fai anche tu che stai leggendo, vero?

Bene, come sempre quando si parla di Intelligenza Linguistica, non viene messa in discussione l’intenzione con cui si dicono o scrivono certe cose (che solitamente è positiva), bensì il risultato che le parole scelte producono, a prescindere dalle intenzioni.

In questo caso, le buone intenzioni riguardano il sollecitare un riscontro.

Ma se tu scrivi che “resti in attesa” ti dai due volte la zappa sui piedi: la prima perché stai dicendo che tu, professionista, non hai niente di meglio da fare che restare lì, davanti allo schermo, in attesa. E questo ti fa perdere autorevolezza. La seconda, perché di fatto stai lasciando all’altro tutto il tempo del mondo per risponderti, tanto tu sei lì in attesa fino alla fine dei tempi…

E dunque come è possibile mantenere la buona intenzione, usando parole più efficaci?

Hai due alternative: la prima è migliore, ma non sempre fattibile. La seconda va comunque bene.

La prima consiste nel guidare tu: invece che lasciare all’altro tutto il tempo che vuole per risponderti, scrivi una cosa del tipo “La chiamo fra X giorni / Le scrivo fra X giorni / La contatto fra X giorni per avere una risposta in merito”.

La seconda, invece, è una sorta di reincorniciamento verbale: “Le chiedo cortesemente di avere un riscontro entro il perché…”. In questa seconda opzione hai evitato di dire che resti in attesa, hai fornito una tempistica e hai usato quella che si chiama “Cornice Perché”, ossia hai fornito una motivazione per la richiesta che stai avanzando (il cervello ha sempre bisogno di motivazioni!).

Gli esempi circa l’Autorevolezza potrebbero continuare a lungo, perché il tema, come dicevo, è molto vasto e riguarda sia la sfera personale, sia quella professionale.

Ma sono sicuro che già i due che ho riportato ti abbiano fatto riflettere e spronato a fare più attenzione alle parole che scegli.

 

Perché compiamo questi errori?

È molto semplice: in primo luogo, persone di cui ci fidavamo ci hanno insegnato così (genitori, insegnanti, capi, ecc.) e dunque noi abbiamo preso per buono ciò che ci dicevano.

In secondo luogo, perché viviamo in una società dove la maggior parte delle persone parla e scrive così e questo, per il nostro cervello, rappresenta una conferma di validità (si chiama Principio di Riprova Sociale, ed è uno dei sette Princìpi della Persuasione codificati dallo psicologo Robert Cialdini; scopri di più a questo link).

Di conseguenza, parliamo e scriviamo per abitudine e senza ragionare sulle parole che utilizziamo, né tantomeno sui risultati che esse possono produrre.

In conclusione: aver parlato e scritto in un certo modo fino a oggi non è una colpa. Ma è una colpa continuare a farlo dopo aver appreso questi meccanismi!

 

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